Speciale Medicina – Covid-19, la vera storia della Lombardia incubatrice del virus

I risultati di uno studio condotto dal Sars-CoV2 Italian research enterprise e pubblicato su Nature

LEGNANO – Sono trascorsi più di due anni dalla scoperta del Paziente 1 a Codogno il 20 febbraio 2020 ma ancora oggi sappiamo poco della reale presenza del virus prima di quel caso e su come poi abbia potuto diffondersi rapidamente in tutta Italia e da lì in tutta Europa.

Uno studio appena pubblicato su Nature cerca di fare chiarezza, utilizzando ovviamente i dati ufficiali a disposizione che potrebbero comunque essere carenti in molte parti. La ricerca è stata pubblicata dal gruppo Scire, che sta per «Sars-CoV2 Italian research enterprise», coordinamento di collaborazione che annovera i maggiori esperti in centri clinici e laboratori in tutta Italia, tra cui il professor Gianguglielmo Zehender e la ricercatrice Alessia Lai, del dipartimento di Scienze cliniche e biomediche dell’ospedale «Sacco» e della Statale.

Il tema chiave è riassunto nelle prime righe dell’articolo: «L’Italia può essere considerata il primo e uno dei maggiori incubatori per la diffusione dell’epidemia in Europa e negli Stati Uniti e l’analisi dell’epidemiologia molecolare sin dalle prime fasi nel nostro Paese è di particolare interesse per svelare i primi passi evolutivi del virus al di fuori della Cina e i suoi adattamenti in Occidente».

Quella dei ricercatori è la ricostruzione più accurata e rispondente alla realtà per quanto gli strumenti scientifici consentano di indagare, tenendo conto che, all’epoca, le sequenze genetiche del virus estratte e inserite nelle banche dati internazionali erano veramente pochissime.

Ritornando al febbraio del 2020, all’inizio della pandemia, il Covid-19 è entrato in Italia (e da lì molto probabilmente in Europa ed in Occidente) attraverso due «canali»: uno in Veneto, l’altro in Lombardia. Il coronavirus, già in quel momento, (fine gennaio – inizio febbraio 2020) aveva due diverse forme, non generate in Italia attraverso mutazioni, ma sbarcate così già dalla Cina, dunque due primi inizi di contagio indipendenti l’uno dall’altro, arrivati più o meno contemporaneamente dall’Oriente probabilmente intorno alla metà di gennaio 2020.

Dagli scienziati, le due prime forme del virus vengono identificate come B, quella in Veneto, e B.1, in Lombardia. La differenza tra i due virus risiede nel fatto che il lignaggio B nel Nordest è «sbarcato» ed è rimasto confinato e circoscritto, fino all’estinzione, al contrario B.1 dalla Lombardia ha iniziato a espandersi, e quello lombardo è stato dunque il focolaio dal quale la malattia ha iniziato ad espandersi in tutta Italia (vedi in apertura): prima ancora in Veneto, e poi in Emilia Romagna, Friuli, Marche, Puglia, Lazio e Abruzzo.

Proprio in quest’ultima Regione, ha cambiato forma di nuovo (con mutazioni) diventando B.1.1, e da qui sono partiti nuovi canali di diffusione, di nuovo verso il Veneto, la Lombardia, la Puglia, la Sardegna. L’ultima variante B.1.1.1, è stata rintracciata infine in Piemonte, ma in quei giorni l’Italia intera entrava in lockdown, e quindi quest’ultima «gemmazione» è rimasta confinata. A quel punto però varie forme del virus avevano avuto la possibilità di diffondersi devastando l’Italia e l’Europa.

Quindi, semplificando, si potrebbe confermare (pur tenendo conto dei limiti citati sopra) che la storia «definitiva» del «viaggio» (o almeno uno dei principali passaggi) che il Covid-19 ha fatto nel mondo, sia stato sull’asse Cina, Nord Italia, Europa.

Altro tema interessante citato dai ricercatori riguarda le mutazioni cui il virus è andato incontro rispetto alla versione “originale” cinese. Come già scritto, la storia del Covid-19 ha uno snodo sicuramente decisivo quando «emigra» in una sorta di «doppio arrivo» dalla Cina in Italia, passando per il «vicolo cieco» del Veneto e, al contrario, alimentando le catene di trasmissione originate in Lombardia (e questo senza voler in alcun modo esprimere giudizi sulle politiche sanitarie o di contenimento adottate dalle due Regioni, perché è chiaro che se pure fosse andata diversamente, la pandemia sarebbe comunque dilagata come abbiamo avuto modo di constatare negli anni seguenti e direi anche attualmente).

All’inizio di febbraio 2020 le catene «esplodono» con l’apparizione della mutazione D416G, dotata di una maggiore trasmissibilità, questa ha determinato un nuovo profilo epidemiologico della pandemia in Italia. La ricostruzione è stata possibile lavorando sui primissimi passaggi evolutivi del virus, e cioè le forme genetiche che il virus aveva all’inizio, nelle fasi più vicine alla sua «nascita».

Inoltre poichè Sars-Cov-2 ha in media «due mutazioni per mese», è stato possibile fare un percorso a ritroso per tracciare una mappa geografica degli «spostamenti», ricostruendo le prime tracce che quel virus col genoma molto esteso e in continuo cambiamento ha lasciato in un certo momento storico e in un certo luogo.

Quindi assodato che le prime due varianti (A e B) del coronavirus si sono separate in Cina, questo studio riporta una ricostruzione precisa (in base ai dati oggi a disposizione) dei giorni cruciali occorsi tra gennaio e febbraio 2020, nei quali i primi focolai in Italia (e forse in Europa) restano in qualche modo confinati.

La comparsa della variante D614G «dotata di una maggiore trasmissibilità e la sua silenziosa e non tracciata circolazione durata settimane prima della fatidica data del Paziente 1 (20 febbraio 2020), potrebbe essere responsabile della rapida diffusione dell’epidemia nel Nord Italia, seguita dalla diffusione in altre Regioni e poi nel resto d’Europa», in uno sviluppo esplosivo analogo a quello che si replicherà un anno dopo, a febbraio 2021, con la variante «inglese».

Dott. Dario Zava

Fonte:
Fonte: Phylogeography and genomic epidemiology of SARS‑CoV‑2 in Italy and Europe with newly characterized Italian genomes between February‑June 2020. Nature (2022) 12:5736 | https://doi.org/10.1038/s41598-022-09738-0