
Il Comune che tenta l’assalto disperato: trasferire in città una delle tre squadre bresciane di Serie C – Lumezzane, Feralpisalò o Ospitaletto – per non lasciare la Leonessa orfana del professionismo.
BRESCIA – Una notizia che non graffia: lacera. Un’altra grande piazza che scompare. Un’altra mazzata al calcio italico.
Il Brescia Calcio, glorioso baluardo sportivo della leonessa lombarda, non prenderà parte alla prossima stagione professionistica. Un colpo di mannaia sul collo ancora fiero di una città che dal 1911 si ostina – o si ostinava – a credere che il pallone potesse essere qualcosa di più del semplice rotolìo di cuoio.
È bastato un diniego, tanto cocciuto quanto grottesco, del suo presidente, Massimo Cellino – uomo più affine ai venti di burrasca che ai porti sicuri – per spalancare le porte a un destino che sa di desolazione: non onorare i pagamenti dovuti, non iscrivere la squadra, non chiudere la stagione. In altri tempi, a un tale gesto si sarebbe risposto con forconi e sonagli. Oggi restano comunicati e rabbia sterile.
A Brescia, dove il calcio è fierezza operaia e identità collettiva, si respira ora un’aria greve, un misto di rabbia e voglia di capire, come accade in ogni sconfitta che non è giunta dal campo, ma da scrivanie infette.
Il Comune tenta il pressing a tutto campo
Nel vuoto lasciato da Cellino, ecco il Comune che tenta l’assalto disperato: trasferire in città una delle tre squadre bresciane di Serie C – Lumezzane, Feralpisalò o Ospitaletto – per non lasciare la Leonessa orfana del professionismo. Operazione ardita, se non improbabile.
Il Lumezzane, con la sua storia dignitosa e rude, ha radici salde tra le valli. La Feralpisalò, creatura ambiziosa di lago e ferrovia, ha già percorso binari di gloria autonomi. Più malleabile – almeno sulla carta – l’Ospitaletto, compagine a pochi chilometri dalla città, patria calcistica del compianto Gino Corioni, nume tutelare del miglior Brescia mai visto.
Ma anche qui, le speranze si infrangono: la società ha detto no, decisa a restare sé stessa, col proprio nome, il proprio paese, la propria storia. A chi pretendeva una nuova Rondinella sotto mentite spoglie, si risponde con le carte federali: non si può chiamare Brescia ciò che Brescia non è.
Il tempo delle chimere è finito
Resta allora solo una strada, la più difficile ma la più onesta: ripartire dal basso, dalle macerie, da una nuova società che possa ricevere – chissà quando e da chi – il diritto sportivo che la FIGC si troverà a gestire, dopo la rovinosa uscita di scena delle Rondinelle.
Forse dalla Serie D, forse da un’idea più modesta ma più sincera. Serve una compagine nuova, seria, che garantisca continuità e dignità. E servono imprenditori veri, non più fantasmi con portafogli scuciti.
La sconfitta più amara non viene dal campo
È finita così. Non per un gol preso all’ultimo, non per un rigore sbagliato, ma per un assegno mai firmato.
A Brescia non si piange: si mastica amaro. Ma chi ha indossato quella maglia con la banda bianca e blu – e chi l’ha amata – sa che una squadra può anche sparire dalle tabelle federali, ma non dai cuori.
Nel frattempo, la città tace come dopo un funerale.
Le Rondinelle non volano più.